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Gli odianti

Samuel Butler, nei suoi Taccuini scrive: «Poco importa che cosa odiamo, purché odiamo qualcosa». Lo scrittore inglese non ha potuto assistere all’avvento di internet ma decisamente la sua affermazione ben si adatta ad alcuni fenomeni online di esternazione dell’odio. Hate speech, shitstorm, cyberbullismo, cambia la forma ma non il sentimento: odio dunque sono.
Mario Morcellini, commissario dell’AGCOM, Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, nel suo articolo su Il Foglio del 30 ago 2017 intitolato proprio Odio ergo sum, analizza il fenomeno legato all’odio online: «Occorre dire con chiarezza che l’incitamento all’odio sul web (hate speech), i sentimenti di denigrazione dell’altro (cyberbullismo) e la diffusione di notizie false (fake news) non presentano alcuna congruenza con il principio costituzionalmente tutelato della libertà di manifestazione del pensiero». L’odio facile, che prospera sul web, che va a nozze con i social, luogo di sfogo, di rabbia, in cui «è diventato più semplice attaccare l’altro, distruggerlo, delegittimarlo e denigrarlo, piuttosto che argomentare una posizione con proprie idee».
La propria idea diviene l’arma per colpire. E quando a colpire si è in tanti, la valanga di odio diventa inarrestabile e di una furia cieca. Recentemente ad aver provato sulla propria pelle le maledizioni e gli auguri di morte è stato Ivan Zaytsev con il suo post «E anche il meningococco è fatto! Bravissima la mia ragazza sempre sorridente», riferito alla vaccinazione di sua figlia, travolta anch'essa dall'ondata di astio.
Gli shtistorm non perdonano. Si è aspettato troppo tempo per mettere a caratteri cubitali che il web non è terra di nessuno. Si è lasciato credere che proprio in questo spazio, così ampio e libero, tutto fosse possibile, senza conseguenza alcuna. All’inizio gli odiatori seriali di professione o amatoriali si proteggevano con l’anonimato per colpire il proprio bersaglio, che fosse un personaggio famoso, un’azienda o il malcapitato di turno. Ormai chi insulta non ha problemi a farlo con la propria foto, il proprio nome e cognome. L’odio social è riconoscibile e perfettamente individuabile e ciò non placa la sua irrefrenabile e tracotante prepotenza. Talmente sovrabbondante che ormai nulla si salva e l’informazione è infarcita della stessa rabbia gratuita.
L’odio unisce, l’odio aggrega, l’odio è la massima manifestazione di un nuovo tipo di anonimato virtuale: quello che fonde i singoli individui in un corpo collettivo (chiamatelo massa, gregge o sciame digitale).
Didier Anzieu, psicoanalista francese, nel 1975 parla di “anonimato collettivo”. Ne Il gruppo e l’inconscio verifica come le persone appartenenti a un gruppo largo si sentano come costantemente immersi e totalmente sommersi nell’anonimato collettivo: più i partecipanti sono numerosi e meno è possibile per gli individui stabilire relazioni interindividuali tali da consentirgli di esistere come singole persone. Il cyberspazio nella sua infinita ampiezza e illimitata possibilità di passaggi e relazioni fa sperimentare l’appartenenza a un gruppo ampissimo, talmente ampio da depersonalizzare.
Cosa può accadere quando si entra in questo immenso luogo digitale? Che il sentimento dell’odio trovi la modalità perfetta per sfogarsi, non rischiando alcuna sanzione sociale e fregandosene di quella penale: «insultano tutti, insulto anch’io e mi sento meno colpevole». Uno, nessuno e centomila, «che mi chiami Pinco Pallino o Giovanni Rossi – e in particolare se non ho la benché minima rilevanza pubblica – io sono nessuno e allo stesso tempo sono tutta la community. O almeno la parte che in quel momento è impegnata con me e non so quanti altri nel dileggio collettivo a tinte necrofile». Insomma, in internet si vive come se non si rischiasse nulla, milioni di utenti virtuali il cui nome e cognome, ammesso che sia vero, si scioglie in mezzo a mille altri miriadi di profili, scordandosi per un momento che gli account sono persone.
Nella dichiarazione dei diritti di Internet promossa dalla Camera dei deputati si legge: «L’uso consapevole di Internet è fondamentale garanzia per lo sviluppo di uguali possibilità di crescita individuale e collettiva, il riequilibrio democratico delle differenze di potere sulla Rete tra attori economici, Istituzioni e cittadini, la prevenzione delle discriminazioni e dei comportamenti a rischio e di quelli lesivi delle libertà altrui».
Gli strumenti ci sarebbero, in Italia per esempio l’hate speech rientra nel reato penale della diffamazione, che se divulgato con un mezzo di comunicazione di massa è diffamazione aggravata. Ma ce lo siamo dimenticati, tutti quanti. In questo modo i deliri rabbiosi hanno avuto tempo, modo e spazio per infestare il campo virtuale altrui.
Sempre Anzieu scrive: «Se i partecipanti sono lasciati liberi di sedersi dove vogliono, si nota la tendenza della maggioranza di costoro a stringersi assieme». Ci si stringe compatti dietro agli insulti, discriminazioni, misoginia, istigazione alla violenza, omofobia, fake news razziste, anti-scientifiche, revenge porn.
Twitter, messo sotto accusa per la massiccia diffusione degli hater e delle fake news, sta correndo ai ripari. Ha infatti comprato la startup Smyte per tutelare i propri utenti da troll, hater e fake news: «Il team Smyte ha affrontato molti problemi che riguardano la sicurezza online e crede nello stesso approccio proattivo che stiamo adottando per Twitter: fermare comportamenti abusivi prima che incidano sull’esperienza di chiunque. I loro strumenti e processi di revisione si uniranno alle nostre tecnologie che aiutano a mantenere Twitter un posto sicuro». Il compito di Smyte sarà quindi quello di difendere la community (ma soprattutto gli interessi) di Twitter da post e contenuti violenti e i tweet attribuibili a troll.
L’arma più potente però rimane quella in mano all’uomo. Il digitale deve diventare competenza di base come lo è diventata a suo tempo la scrittura. Alfabetizzazione digitale. Se fino a ieri le competenze base richieste per poter reggere il confronto con il mondo e il resto dell’umanità erano leggere, scrivere e fare di conto, cambiando il mondo cambiano anche le competenze. Se quella digitale poteva essere nata come un qualcosa di nicchia, quanto accade nel web ci sta dicendo che ormai deve essere considerata indispensabile per tutti. Per difesa nostra e per difesa dello spazio virtuale.
Cambiando la propria visione del mondo, in questo caso quello digitale, si avrebbero persone dotate di strumenti adeguati per comprendere come comportarsi anche davanti a una fake news o a un hater. I social network danno la possibilità di segnalare i contenuti inappropriati e i discorsi d’odio, denunciando alle forze dell’ordine quelli gravi che sono sanzionabili secondo il diritto vigente. Uniti si può iniziare una vera e propria azione controcorrente, divulgando tutte quelle notizie e informazioni che smentiscono fake news e hate speech.